dell'archeologo dott. Francesco Rubat Borel Sopraintendenza dei Beni Archeologici del Piemonte
Dell'arte orafa non conosciamo molte parole e per gli stessi orefici abbiamo solamente un termine della tarda latinità, barbaricarius. Il più famoso gioiello è, con parola latina, il torques, il collare. Si tratta di un antico prestito dal celtico torco-, con la forma latina influenzata dal verbo torqueo ‘torcere’: i torques presto divennero un’onorificenza anche per l’esercito romano. Sempre nella Cisalpina era anche chiamato maniaca. L’italiano settentrionale vera ‘anello matrimoniale’ e anche la ghiera vengono dall’armilla che ci informa Plinio «in celtico si dice uiriola, in celtiberico uiria». Dubbio invece sentis ‘fibula’, mentre lo spillone è delgo-.
Qui inseriamo anche le più fini produzioni in bronzo: cilurno- ‘situla o brocca’; pario- ‘calderone’ che è ancora oggi vivo nell’italiano paiolo, piemontese paireul, occitano pairòl, catalano perol e che avrebbe dato il nome ai popoli dei Parisii (da cui Parigi) e dei Quairates (da cui Queyras sulle Alpi francesi); la famosa tromba da guerra celtica, il carnon o carnux. È possibile che sia di origne celtica anche clocca ‘campana’. Sono conosciuti anche molti altri nomi di vasi, ma più facilmente si trattava di prodotti ceramici e non in lamina di bronzo. Benché si sappiano questi nomi, inoltre, non è possibile una precisa attribuzione alle varie forme ceramiche perché le attestazione sono poche e sporadiche. Per le produzioni celtiche non è per ora possibile una terminologia puntuale come per la ceramica greca (kylix, oinochoe, cratere, kyathos...).
«Ed infine l’ultima di crudele ferro», come scrisse un antico poeta.
Ovviamente, in ferro erano fabbricate non solo le armi ma anche gli strumenti agricoli. L’aratro è cencto-, la roncola uidubion (da uidu- ‘legno’ e -bion ‘che taglia’), la falce serra.
Ma il settore del lessico celtico più ricco è quello dell’armamento, oltre a quello dell’equitazione e dei mezzi di trasporto, che però sono argomenti che qui non ci interessano.
Le armi dei guerrieri celtici tra la fine del V e il I secolo a.C. furono ammirate ed imitate da tutte le popolazioni del mondo antico per la loro efficacia. L’esercito romano ha tratto buona parte del suo equipaggiamento dai Galli e dai Celtiberi con i quali venne in contatto, come nemici o come alleati: basti pensare alla pratica e protettiva armatura in maglia di ferro dei legionari tardorepubblicani o ai perfetti elmi. Questo perché il metodo di combattimento celtico privilegiava l’individuo e il movimento, a differenza della complessa e massiccia schiera oplitica delle falangi mediterranee. Metodo di combattimento che fu parzialmente fatto proprio dai Romani, ma con due aggiunte decisive per la storia militare di tutto l’Occidente: l’organizzazione in reparti e l’istituzione dei sottufficiali. Ma questa è un’altra questione, torniamo alle armi dei Celti.
Abbiamo incontrato gli elmi, che furono imitati dai Romani nei famosi elmi legionari, ma purtroppo non conosciamo la parola celtica. L’armatura, limitata ai capi per la complessità della sua realizzazione in maglia di anelli di ferro, era brunia o bronia, dal nome del torace e passata anche nelle lingue germaniche (non furono solo i Romani a ispirarsi all’equipaggiamento gallico). Varrone ricorda che le più antiche corazze romane erano in cuoio, successivamente furono adottate quelle galliche in ferro. In età romana c’erano poi dei gladiatori coperti di corazza tipici della Gallia, i crupellarii.
Lo scudo poteva essere indicato con una parole che significa, più estesamente, ‘superficie’: talu-. Abbiamo anche due parole simili specifiche per lo scudo, forme in due diverse lingue celtiche con una stessa origine: per i Celtiberi caetrea, per i Celti forse della Cisalpina curtia.
Arriviamo alle armi d’offesa. Tutti sanno che la spada dei Romani è il gladius: bene, anche questo è un prestito dal celtico cladios. I Romani adottarono le spade dell’antico La Tène, più corte di quelle successive ed adatte a colpire di punta, e le svilupparono secondo le loro esigenze di combattimento.
Un’altra arma con una lama era il daculum (un pugnale?), che sopravvive in alcuni dialetti occitanici dalh ‘falce’.
A differenza di quel che solitamente immaginiamo per i guerrieri celtici, armati di lunghe spade e di grandi scudi, abbiamo un ricco lessico sulle armi lunghe e da getto (lance, giavellotti...). Questo perché si trattava di armi estranee agli usi dei Greci e dei Romani: si parla spesso più di cosa ci stupisce che non di ciò che è davvero diffuso.
Così è celtico lancea o lancia, ovvero ‘lancia’. Molto famoso è il gaison, giavellotto da cui hanno preso il loro nome i Gaesates, gruppo di guerrieri che migrò in Italia nel 225 a.C. Ad un’analisi delle fonti antiche, era usata soprattutto dalle popolazioni alpine, i cui guerrieri ne portavano con sé due, potendo così colpire due volte prima di un eventuale corpo a corpo. Forse anche giavellotto (dal francese javelot) viene dal celtico gabalos ‘strumento forcuto’ (che darà il piemontese gavel ‘cavalletto a tre o quattro piedi’) o più probabilmente dal verbo gab- ‘prendere’, perché per scagliarlo si doveva afferrare con delle cinghie di cuoio che imprimevano maggiore forza al lancio. Un giavellotto con la punta assai larga era invece il mataris o matara.
Di difficile identificazione è la cateia una sorta di arma da lancio tipica delle popolazioni alpine e che si dice potesse tornare indietro al lanciatore, forse un’ascia da getto che è raffigurata nelle incisioni rupestri delle Alpi Cozie dell’età del Ferro: una larga ascia dalla lama triangolare e il manico corto. I Romani ricordavano con orrore le scene dei mutilati alle gambe dopo la battaglia di Canne. Proprietà di tornare indietro aveva anche il tautanus di Galli ed Iberi. Aveva un uncino l’ango, sempre giavellotto era sparus, che però può essere parola germanica. Ancora, combattendo i Boi i Romani impiegavano un tipo di giavellotto detto ussos: sarà celtico?
E non dimentichiamo che tutte queste armi avevano parti in legno: spesso l’albero da cui era tratta veniva ad indicare l’arma e di lì anche essere preso come nome da popoli, come gli Eburovici (‘che combattono con il tasso’, eburos, il cui legno elastico è il migliore per gli archi), i Lemovici (‘che combattono con l’olmo’, lemos, per le lance), i Bagienni (dal faggio, bagos, più albero sacro che arma)...
Dopo questa lunga catena sul lessico dei metallurgi, vi ricordo che altre attività artigianali per i quali i Celti erano famosi e che hanno dato molto al lessico latino e delle lingue moderne erano la carpenteria e la costruzione di carri, oltre alla tessitura e sappiamo anche qualcosa sui vasai. Ma questi sono altri lavori...
Ed ora per chiudere, alcuni nomi di persona formati con le parole che abbiamo incontrato: Conclados (che ha la spada), Gesatorix (il re dei Gesati), Gobannicnus (il figlio del fabbro), Isarnouclitos (pilastro di ferro), Merogaisus (folle lancia), Ordouix (che combatte con la mazza), Vologesus (lancia magica).
Il taglio di quest’articolo è stato discorsivo e divulgativo. Avrete notato che alla fine di alcuni termini ho messo un trattino. Il celtico, come il latino, il greco, il germanico..., aveva tre generi: maschile, femminile e neutro. Molte parole non sappiamo se fossero maschili e terminassero in -os, oppure neutre terminando in -on. Nell’incertezza si mette un trattino che segna un tema in -o-: quindi cilurno- sarà stato cilurnos (maschile) o cilurnon (neutro).